Vincenzo Giugliano
Un cammino verso l'iperpresente
Senza andare ad individuare qualche precedenza cronologica, le tecniche di "collage" e di mascheratura sono molto calate in questo ultimo quarto di secolo - ispirate probabilmente dalla molteplicità dei supporti e materiali offerti - prendendo cura di non diventare un genere, ne uno stile e ancora meno un linguaggio.
La profusione del materiale esige che ogni artista abbia il suo itinerario e che ogni opera abbia il suo linguaggio. I creatori di poster ci hanno familiarizzato con i cadaveri del presente strappati vivi dai muri. Altri collage hanno sfruttato la possibilità di giocare con la familiarità dei dati (giornali. riviste, volantini pubblicitari, cartoni maculati da stampi regionali ed internazionali, ecc..) e il modo più o meno incredibile del loro trattamento, al fine di esprimere la nebbia del mondo. Vincenzo Giugliano si dedica alla pura arte della composizione che deriva dalla pittura e dalla musica. Naturalmente ha scelto parole forti ("le storie", "pace","felicità", "guerra", "sismi"...) e delle immagini di antologia che vagano in uno spazio dove coesistono papi, star del rock, e celebrità dello spettacolo, tutte sottomesse a costrizioni formali, il che obbliga quasi ogni compositore a creare, nello spazio isolato in cui opera, la ricostruzione della problematica della dispersione...
Un tale tropismo sembra inevitabile per un logico del campo plastico: "Come una diversità può diventare unità"... indipendentemente dal media di cui si utilizza la materia prima... mentre ci si aiuta con qualche pennellata quà e là? Alterare i media in questo modo può darle automaticamente un senso nuovo? Una delle sue opere "Elicantropo" offre frese la chiave... una macchina che ricicla il senso del significato. I tropismi sono dati dagli script di un linguaggio orientato: lo slogan. Ma il cammino di Vincenzo è qui essenzialmente plastico e consiste nel capire in che modo si possono creare delle vertigini con del piatto. Non è più una notizia: quel che manca alla stampa è la profondità e questo, avrebbe detto Mc Luhan, non viene dal giornalista ne dalle autorità di vigilanza ma dai supporti stessi. Sarebbe effettivamente assurdo mettere dello spessore su qualcosa che si sfoglia. Per essere in grado di effettuare una placcatura su una superficie, i ritagli devono essere distribuiti, dislocati, tagliati, dissociati ma raccolti con la magia del pennello, essi galleggiano in uno spazio che è malgrado tutto uno spazio di pittura. Dürer raccomandava di racchiudere le lettere che si volevano tracciare nei quadrati di cui si nominano gli angoli con lettere ...ma qui le lettere sono già state tracciate e siccome l'arbitrio della pittura consiste nel dipendere unicamente delle sue proprie leggi ... i segni cosi liberati dall'obbligo di voler dire qualche cosa si mettono a significare lo spazio dove ogn'uno di loro serve da respingente agli altri, creando cosi della profondità, il che significa che il mondo si ribella per non diventare un archivio ... Bisogna dunque buttarsi nel quadro come in una città immaginaria, della quale abbiamo avuto talvolta uno scorcio, e talvolta una mappa, per vederlo. Questo modo di abbordare la tecnica della mascheratura consiste nel ricavare dalla tabulazione degli elementi (che questa tecnica autorizza) uno spazio dove i segni del presente si marginalizzano. Gli elementi che siamo abituati a vedere isolati nelle cronache, sfogliandole, qui si distribuiscono ... straripano gli uni sugl'altri, esibendo degli artifici che permettono loro di nascondersi. Questo tipo di espressività sulla tela, che utilizza il corpo frammentato del linguaggio della stampa, (che mette in evidenza le stigmate dei crittogrammi senza senso) esige innanzitutto di stritolare i segni, in quanto solo l'artista è in grado d'isolarli dagli elementi utilizzando le sue capacità immediate di rivelatore di pertinenze (Stockhausen si considerava un transistor), per poi ricomporli secondo altre regole... imponendo delle diverse sequenze e denaturandoli dagli arbitri. E'dunque una vera sfida al tempo, perché non vi è dubbio, rappresenta una specie di apoteosi per questi detriti di senso pescati nella stampa, che possono così accedere ad una seconda vita, ad una specie d'immortalità, al paradiso delle rappresentazioni sociali scadute. Bisogna fermare o almeno rallentare il flusso delle informazioni veicolate dai frammenti di frase, icone riprese con i flash dell'istantaneità, tramite delle regole di ricomposizione grafica (lettere con polizze inquietanti, parole troncate, istantanee di celebrità, istanti feticisti, icone, simboli...). I supporti diventano così autonomi e giocano nello spazio del quadro, nel quale scavano delle prospettive. L'intreccio del testo e della pittura riguarda il tempo. Per uno strano paradosso che si attribuisce spesso all'invecchiamento della Galassia Gutenberg la connotazione temporale del testo è l'istantaneità ... La referenza a questo linguaggio è una specie di segno d'addio alla stampa che non è più ormai la generatrice del modo in cui vediamo il mondo.
Jacques Bollot